Undicesima pagina Essere o non essere

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Mi è piaciuto scrivere questo racconto; affondare nei ricordi di una infanzia che non è mia. È nostra. Ripensare ai giochini sottili delle bambine, alla reazione del bambino che non comprende il comportamento che gli viene indirizzato, naturalmente, mi ha fatto affiorare alla memoria miei ricordi che potrebbero avvicinarvisi o avere in comune alcuni aspetti. Credo per la similitudine dei meccanismi che si innescano con le prese in giro, gli insulti, le sorprese… Ci sono volte che la scrittura ti conduce e trova lei la strada che tu non riesci a trovare. Sono vie differenti di volta in volta, e per questo non puoi sapere prima in quale vicolo o piazza o sentiero ti possa ritrovare. Anche le fiabe hanno fasi retoriche, ma gli elementi attingono dal mistero, il finale lascia comunque una restituzione di concatenamenti e prove speciali a cui tocca prendere parte. Anche nei racconti, nei romanzi si trovano prove da superare, aiutanti, officianti, nemici, impedimenti e doni sviluppati in altro modo rispetto alle fiabe, parti di un repertorio che ci accomuna. Pure nei nostri giorni sulla terra li riscontriamo.
E dove allora?

 

 

Essere o non essere

 

È il pensiero a condurre la scrittura o la scrittura conduce il pensiero.

Questa fu una frase che si pose nella mia infantile testa quando a scuola imparai a scrivere.
Avevo un buffo soprannome per via dei miei irti capelli. Mi chiamavano: Retina.
Un nome di genere femminile, e io ero un bambino. Ricordo con perfezione che non capivo il significato di essere chiamato specificatamente con un termine appositamente selezionato per dividere i bambini dalle bambine. La distinzione era forte nella nettezza di porre confini tra maschi e femmine. Nella mia classe, fino alla quarta elementare, eravamo mischiati con le bambine, e si diceva: classe mista. In seguito, fino alla terza media, frequentai una scuola religiosa in cui eravamo solo maschi. La vicinanza occasionale, fuori dalla scuola, con le femmine fu per me una emozione così forte da straziarmi. Mi batteva il cuore all’impazzata, ma non era solo il cuore a essere fuori controllo. In me vi erano altre leggi che non conoscevo o di cui non avevo consapevolezza. Istinto, paure remote che chissà da dove mi arrivavano, volontà di negare un qualcosa di sovrapposto nel maschile si facevano sentire caoticamente durante i miei incontri.
Come mi sentivo disarticolato, confuso e a disagio. Conobbi a scuola una bambina di dieci anni – io ne avevo nove appena compiuti e frequentavo la classe quarta – che mi mise alla prova nei modi più tremendi che le venissero in mente. Una mattina di un giorno di scuola, durante la ricreazione, lei venne da me chiedendomi di giocare insieme. Ero soggiogato da quel suo modo da imperatrice di dire le cose. C’era una ironica sfacciataggine nel fissarmi mentre mi parlava, attendendo con noncuranza una mia risposta. Io ne ero soggiogato, ripeto. Le risposi che avrei giocato tra un po’, perché mi sentivo triste e non volevo mischiare la tristezza con il gioco. Lei scoppiò a ridere. Rise per l’intera ricreazione. Non avrei potuto rincorrerla come lei avrebbe voluto. La reazione di ilarità acuì la mia tristezza e mi fece letteralmente indietreggiare dalla sua persona. Lei, tra le risate, se ne accorse e in qualche modo scossa dalla mia faccia mesta, mi apostrofò a voce alta con la parola, femminuccia. Per giorni non mi rivolse direttamente la parola, ma parlava di me in terza persona organizzando scherzi con altre bambine e bambini. Per me fu un supplizio essere l’oggetto dei suoi scherzi. Sapevo che se non fosse stato per lei le compagne e i compagni non si sarebbero disturbati a rivolgermi simile scherzose attenzioni. Questa bambina divenne il mio supplizio. Dopo anni, quando mi appassionai allo studio dei miti della Grecia, il suo ricordo si palesò con un immediato collegamento e senza che io lo avessi voluto. A differenza dei miti da me studiati faticai a comprendere quale mia azione avesse a quel tempo scatenato il suo crudele comportamento. In ogni mito e in ogni supplizio era scandito quel qualcosa da cui scaturiva il susseguirsi delle reazioni da parte degli dèi. Nel mio caso c’era da chiedersi fino all’esaurimento – prima fase del supplizio – la motivazione per quel suo modo di agire nei miei confronti.
Lei continuò a prendermi in giro e a chiamarmi femminuccia per mesi. Aggiungo: mi chiese altre volte di giocare con lei. Un giorno mi lanciò un bigliettino in cui era scritto:
Vieni alla mia festa sabato 10 maggio alle 16:00 via Isabel Allende 23.
Quel sabato convinsi mia cugina a portarmi alla festa. Ci aprì la porta di casa una persona con una vestaglia pesantissima addosso e una parrucca molto vistosa. Guardai il più possibile questa persona senza capire se fosse un uomo o una donna e mi resi conto di come fosse irrilevante compiere una distinzione di quel genere. La persona ci fissò in una maniera che non avevo mai visto in un essere umano. Mostrava un dolore e una sottile ironia insieme. Il suo muoversi era lento, ma inaspettatamente i suoi muscoli scattavano e occupava una posizione nuova in pochi secondi. Chi era? La madre o il padre di lei che mi aveva invitato alla festa? Mia cugina era più grande di me e reggeva le veci di un genitore, e chiese: «Buonasera, mio cugino è stato invitato alla festa in questa casa… dovrei sapere l’orario per passarlo a prendere o…» e si confuse nel completare la frase.
La persona ci rivolse la parola: «Ma quale festa, di che festa parlate?»
Io presi la parola: «La mia compagna di classe mi ha invitato alla sua festa, ecco qui il bigliettino» e glielo posizionai tra le mani.
«Devo proprio incavolarmi allora, questa storia della festa è già accaduta altre volte» ci disse con tono ruvido.
«Ma come è possibile che tutto sia uno scherzo» aggiunsi compiendo uno sforzo impronunciabile per non piangere. Mi sentivo sopraffatto dalla presa in giro, credetti di udire il ghigno di lei per la riuscita dello scherzetto.
Mia cugina non sapeva nulla di scherzi, di prese in giro e ci teneva a mettere le cose in ordine: «Sicuramente ci sarà stato un errore, magari l’indirizzo o il numero civico è sbagliato, non si preoccupi, noi ci scusiamo e andiamo via»
«Ah è così, voi vi scusate e andate via. Non così in fretta, ascoltatemi bene prima di uscire da quella porta. Potrei anche provarci gusto a ricevere visite come quella di oggi, ma non ne ho voglia. Vi dirò che mi sento anche io umiliato da una stronzetta che ci prende in giro. Non mi diverto. E a guardare le vostre facce non credo che vi sia piaciuto lo scherzo» e detto questo ci fissò con quei suoi occhi di animale sincero.
Mi sentii meno agitato e impacciato dopo avere ascoltato le sue parole e trovai il coraggio di raccontare i dispetti che lei mi destinava a scuola. La persona – dalla pesante vestaglia e vistosa parrucca – mi ascoltò con una attenzione impeccabile. Mi prendeva sul serio al punto che per un attimo credetti anche che si stesse burlando di me. Dopo il mio racconto ci propose un piano:
«Cosa ne dite se domani mi presento all’uscita di scuola e dico alla tua compagna di classe che non voglio più visite al mio recapito?» E aggiunse:« Anche se ci sarà un genitore all’uscita glielo dirò ugualmente, ma parlerò direttamente con lei e non mi esprimerò tramite altre persone»
«Per me è una buona idea» annunciò mia cugina con voce più tranquilla.
«Non vorrei che si vendicasse su di me» piagnucolai. E la persona – dalla pesante vestaglia e vistosa parrucca – mi consolò in un modo dolcissimo; mi parlò argomentando con frasi misteriose il motivo per cui avrebbe voluto agire in quel modo. Erano versi quelle parole. Versi di poesia sparsa nei secoli dei secoli. Mi arrivarono nel mio spazio intimo articolando una visione più penetrante della vita, qualcosa che si apriva con un taglio accecante che sentivo correlato a tutto me stesso, e dissi: «Sono pronto, non ho paura di qualsiasi cosa possa farmi…». Mi sentivo cambiato. Mia cugina era emozionata e non disse quasi più nulla. Uscimmo dalla casa quando il sole era all’ovest. Quelle parole, quei versi vivono in me.

 

frelen

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