Terza pagina La città Il mare

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È notte, c’è la nebbia. Ho terminato di lavorare alle 23,30 e sono rientrata a casa all’una circa dopo un lungo percorso. Prima di entrare a casa mi ripetevo alcuni versi. Prima di entrare a lavorare mi sono ripetuta altri versi. E in mezzo? Nel durante delle ore i versi si sono diradati. Sono stati assorbiti da un ritmo accelerato e ogni concentrazione è stata rivolta alle azioni da compiere. Non so se siano le azioni a prendere il sopravvento o la poesia a spostarsi per visitarmi in altri momenti. Sta di fatto che quando sto lavorando devo dare retta alle persone intorno a me e agli oggetti che maneggio. Appena un po’ mi sposto rivolgendomi a altro, puntualmente, mi scappa qualcosa dalle mani. Poi, o raccatto i cocci di quel cadere o riprendo al volo ciò che è caduto. Le altre persone mi trovano, a volte, come persa in un altro mondo, imbambolata o a cercare chi sa cosa. È importante questo? Sul posto di lavoro lo è.

La città prevale quasi sui pensieri interiori e aumenta quella dicotomia di sentirsi isolati/e. Pure camminando nel frastuono, tra tante persone, tra vie piene di negozi, luci, merci e molto menefreghismo non ci si sente in compagnia. Non si fa parte di questa moltitudine. Ci sono volte che anche io mi diverto, usufruisco di qualche luogo pubblico, di un parco, una biblioteca, un bar, un teatro, un cinema… Ci sto volentieri e preferisco essere perfino anonima, sconosciuta, proveniente da un mondo personale non necessariamente sconfitto in partenza a fare il proprio ingresso in un contesto pieno di corpi. Mi sposto in tensione per raggiungere anche dei luoghi e mi fermo in altri per scrivere quell’infinito quaderno di appunti.

Tra questi appunti:

Luogo via Matteotti
panchina di fronte la chiesa Sacro Cuore
rumore fendente indomabile

puliscono le strade
ti viene da implorare
lasciate lo sporco a questa
violenza dei sensi

dopo forse la gratitudine
per il nitore conquistato
poi tutto è traffico

mezzi automobilistici
di pubblico trasporto
individuale collettivo
biciclette posteggiate
nei ferri adibiti
all’uso
non si aggiunge il silenzio

frelen

 

Non volevo partire da niente
avrei tolto le spalle imbottite
alla giacca
sistemato i pensieri alla meglio
per fare di questo giorno
una vacanza
le cose si complicano mi disse
al telefono una voce
trentuno anni fa

sei ore al mare in un concordato
di reticenza
accedere solo alla bellezza
di una spiaggia
neanche troppo affollata

il corpo tradisce o restituisce
acque surriscaldate
raggi lesivi a un derma indifeso

non così chiasso
si ascolta lo sciabordio
delle acque
lo schianto di corpi
sepolti in mare

frelen

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